Giartosio: ‘Felice di essere nella sestina del premio Strega con una nuova idea di letteratura”

Le parole che raccontano una vita. I modi di dire, il lessico quotidiano, i lemmi che hanno scandito il passare del tempo. Le parole rassicuranti e talvolta caotiche pronunciate dalla madre e quelle più stringenti del padre. Il linguaggio di ogni giorno e quello più ufficiale che insegue ciascuno di noi fin da quando eravamo ragazzi. Un microcosmo fatto di espressioni che disegnano, mano a mano, la biografia di una persona. Frasi che rappresentano l’identità più profonda di Tommaso Giartosio, autore di ‘Autobiogrammatica’ (Minimum Fax). E’ il libro in un certo senso sperimentale entrato a fare parte della sestina del premio Strega in rappresentanza dei piccoli editori, come prevede il regolamento del riconoscimento da qualche anno a questa parte. Nato con l’obiettivo di ricostruire la vita di una persona attraverso le parole, il libro ha finora convinto i votanti tenendo fede a una delle tante vocazioni del premio: quella di aprirsi alle novità e alla sperimentazione in campo narrativo.

Un risultato che procura a Giartosio una grande “emozione” che nasce innanzi tutto dalla possibilità di partecipare alle fasi finali del riconoscimento con “un piccolo editore e con un romanzo che cerca di fare qualcosa di simile a quello che hanno fatto libri lontani nel tempo che si avviavano su strade nuove”, dice lo scrittore intervistato dall’AdnKronos citando come esempio ‘Ferito a morte’ di Raffaele La Capria che vinse l’alloro nel 1961. “Quello era un momento in cui lo Strega era anche una vetrina di modi di fare letteratura molto innovativi. Certo, non voglio paragonarmi a un’opera come quella di La Capria”, osserva.

La ‘promozione’ di ‘Autobiogrammatica’, riflette Giartosio, “compie una vocazione del premio dandole continuità. Credo sia un bene che un premio letterario riesca a fare circolare libri che cambiano la nostra idea di fare letteratura o ci provano. Si innesca un circolo virtuoso in cui una strada più sperimentale arriva a contatto con un numero di lettori molto più vasto”.

Dalle emozioni suscitate dalla possibilità di giocarsi le proprie carte fino al traguardo della serata finale del 4 luglio al Ninfeo di Villa Giulia di Roma, Giartosio traccia poi gli elementi principali del metodo che ha seguito per la stesura del libro. “Sono partito – spiega – dalla constatazione che siamo assediati dalle autobiografie, dall’autofiction e dai memoir. Si tratta, certo, di un assedio virtuoso che evidentemente risponde al nostro tempo. Assedio di cui quindi anch’io sono parte. Io stesso sono un avido lettore di racconti autobiografici”.

In questo senso, prosegue, “mi interessa in particolare l’idea di un progetto di narrazione della propria vita che sia ampio e che abbia delle ragioni forti. Da una parte abbiamo le autobiografie di star del cinema oppure di sportivi, scritte magari con l’aiuto di un giornalista professionista”. Dall’altra “ci sono le persone comuni. Se vogliono raccontare la propria vita devono poter mostrare che hanno da dire qualcosa che merita l’attenzione del lettore. Nel mio caso per farlo mi è parso che la cosa migliore fosse utilizzare il linguaggio come chiave di lettura”.

Questo perché “il linguaggio è qualcosa che possediamo tutti, sono profondamente convinto che ciascuno di noi abbia un rapporto profondo con le parole. La stessa psicoanalisi è basata sull’idea che le parole dell’uomo comune e della donna comune sono cariche di significato. Quindi raccontare una vita attraverso l’asse del rapporto con il linguaggio mi è sembrato un progetto interessante”. Un progetto che prende avvio “addirittura da una sorta di silenzio prelinguistico che per me si collega alla figura del padre”.

Una figura che con il suo eloquio “è di volta in volta taciturno, elusivo, oppure ufficiale. Però, al tempo stesso, lascia spazio alle parole dei figli che possono trovare il proprio linguaggio”. Accanto a quello del padre, c’è poi il linguaggio della madre. “E’ proliferante, caotico, una giungla di espressioni, battute ricorrenti, modi di dire. Una forma di generosità linguistica ma anche qualcosa in cui puoi rimanere catturato”, dice Giartosio che fa riferimento a un esempio illustre. “Il paragone ovvio, che anch’io rendo esplicito, è quello con il ‘Lessico familiare’ di Natalia Ginzburg“.

La scrittrice prendeva in considerazione il linguaggio mettendone in luce gli aspetti positivi, sottolinea lo scrittore, che evidenzia: “Raccontava il lessico come una sorta di felicità. Scrive nel suo libro – ricorda infatti Giartosio – che se si fosse trovata con i suoi fratelli in una grande caverna, o in una grande piazza con milioni di persone intorno, si sarebbero riconosciuti attraverso le parole. In questo caso quindi il lessico familiare è come un’armoniosa occasione di riconoscersi. Io penso, però, che il linguaggio sia qualcosa in cui ti riconosci ma anche in cui rimani intrappolato, qualcosa che vuoi fare tu ma da cui devi anche svincolarti”.

Il libro di Giartosio non assume i toni e il passo del saggio ma di una narrazione piena e composita. “Raccontare il linguaggio di mio padre e di mia madre corrisponde anche alla descrizione di com’erano mettendo in luce i loro conflitti e i loro tormenti. Tutto il capitolo sulla madre – rimarca – è orchestrato attorno alla sua malattia fino alla sua morte. Un passaggio in cui emerge anche il modo in cui cambia il rapporti con i figli. Ho cercato di introdurre e sostenere un forte elemento narrativo proprio perché dovevo in qualche modo bilanciare la presenza di un tessuto espositivo sul linguaggio”, conclude.

(di Carlo Roma)

(ADNKRONOS)